La ristrutturazione tardo capitalista dell’ultimo quarantennio ha portato all’esasperazione la logica meramente utilitaria e contingente, incurante dei costi imposti alla collettività, che ha sempre caratterizzato la storia del capitalismo.
Il risultato è un sistema che muove su due piani. Sul primo si dispiega in maniera pressoché incontrastata, affermando una sorta di neo-dispotismo. Sull’altro ha aggravato squilibri ecologici, demografici e sociali al punto da rendere non più sostenibile il suo stesso modo di funzionare.
Milioni di persone, soprattutto giovani, di tutto il mondo manifestano la necessità vitale di sostituire completamente e in pochi anni le fonti energetiche fossili massimamente impiegate nella produzione, trasporti e sistemi di vita della società contemporanea.
Senza un’urgente e drastica inversione di tendenza il riscaldamento del pianeta raggiungerà nel 2050 la soglia fatale di 2 gradi. A quel punto, sarebbe definitivamente compromesso l’equilibrio di gran parte degli ecosistemi. Il 35% della superficie terrestre dove vive il 55% della popolazione mondiale sarebbe investita per fenomeni metereologici esiziali e per il 30% diverrebbe completamente arida. Due miliardi di persone patirebbero una crisi idrica irreversibile. La crisi agricola costringerebbe almeno un miliardo di persone a migrare. Il conseguente intreccio di guerre e carestie condurrebbe alla fine delle condizioni di sussistenza della specie finora conosciute.
Sempre più evidenti sono anche gli effetti dello squilibrio demografico. Da un lato assistiamo ad un crescente invecchiamento della popolazione e calo della natalità specie negli Usa ed Europa occidentale. E una, ma non la sola, conseguenza di tale andamento è la crescente dipendenza delle persone troppo giovani o anziane per lavorare dalla popolazione in età lavorativa. Sicché nei paesi dell’Unione europea tale rapporto sarà di 1 a 1,5 entro 12 anni, determinando una situazione insostenibile. A tale calo demografico corrisponde un andamento opposto in molti paesi del Sud del mondo, vale a dire in quelli che non hanno ancora spezzato il circolo vizioso tra maggiore povertà e maggiore popolazione. Ne consegue che la straordinaria crescita della popolazione mondiale prevista nei prossimi decenni, con un aumento di 2,3 miliardi nel 2050, riguarderà per il 97,2% i paesi meno sviluppati. Il che costituisce una vera e propria “bomba” demografica dagli effetti distruttivi paralleli agli altri grandi squilibri.
Contemporaneamente aumenta la distanza tra i paesi più ricchi e quelli più poveri, mentre crescono le diseguaglianze all’interno sia dei primi che dei secondi.
Se paragoniamo il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto e, per un confronto ancor più rigoroso consideriamo solo i paesi con popolazione superiore ai 30 milioni di abitanti, il risultato è quanto mai eloquente. Infatti negli 8 paesi più ricchi il Pil pro capite va dai 39.675 dollari in Italia ai 62.869 negli Usa; mentre negli 8 paesi più poveri esso varia da 824 dollari nella Repubblica Democratica del Congo a 6.851 in Angola. Quanto alle diseguaglianze interne, basti dire che il 10% più ricco della popolazione possiede il 47% della ricchezza nell’America del Nord e il 55% nell’Africa sub-sahariana.
Le dimensioni limite di tali squilibri impongono un mutamento radicale dell’organizzazione sociale e dei modelli culturali dominanti nel mondo contemporaneo.
L’affermazione sempre più esasperata di un paradigma che ha predicato il dominio dell’uomo sulla natura, che ha opposto uomo a uomo attraverso sopraffazioni e guerre e che ha provocato discriminazioni d’ogni genere, a cominciare da quella tra uomini e donne, nonché nuove forme di razzismo, compresa l’ingiustificata ostilità contro i movimenti migratori, ha raggiunto ormai limiti autodistruttivi. Urge, quindi, l’opposizione di un paradigma inverso che ci conduca alla ricostruzione di un rapporto armonioso con la natura, alla riconciliazione con noi stessi e, quindi, con gli altri uomini, che opponga a diseguaglianze e discriminazioni i vantaggi della cooperazione e della solidarietà. Un paradigma che aspiri, infine, all’espressione più larga e comprensiva della persona quale diritto fondante degli altri diritti e di un loro nuovo universalismo.
Si tratta di un impegno assai arduo che richiede un corrispondente rinnovamento delle forme di conflittualità sociale ed espressione politica. Forme che possono maturare solo interpretando le istanze più profonde dei grandi movimenti collettivi che, non a caso oggi e in diverse parti del mondo, sono portatori di valori, concezioni sociali e modelli di cultura affatto reattivi al vecchio paradigma e agli squilibri ultimativi che ne indicano la crisi.

(testo ampliato dell’articolo pubblicato su “il manifesto”, 17, dicembre 2019)