Europa e Stati Uniti si trovano, oggi, di fronte a due grandi sfide destinate a modificare la loro storia e quella di altri paesi.

La prima è rappresentata dai nuovi e crescenti flussi migratori provenienti dal Sud del mondo e avverso i quali non ha alcun senso opporre barriere. Infatti esse, da un lato, sono destinate ad essere travolte e, dall’altro, non hanno alcuna prospettiva storica.

La seconda consiste nell’esigenza, sempre più pressante e inderogabile, di modificare profondamente la logica e gli interessi a tutt’oggi prevalenti nella regolazione dei rapporti internazionali.
In realtà si tratta di due ordini di problemi tra loro strettamente interconnessi.
Su un versante, quella che è diventata ormai una guerra agli immigrati si combina con gli interventi armati per ristabilire un ordine tardo coloniale nei paesi da cui provengono.

Gli Usa e i loro più stretti alleati europei, non sembrano paghi delle disastrose quanto inutili guerre in Iraq, dell’interminabile intervento armato in Afghanistan, dei fallaci impegni, diretti e indiretti, “per la democrazia” in Libia, Egitto, Siria. Lo stesso può dirsi per il sostegno dato a questa o a quella fazione nei conflitti civili e nelle contrapposizioni etniche che da anni insanguinano diversi paesi dell’Africa centrale e orientale.
Le sofferenze patite da intere popolazioni dai primi anni ’90, e con un crescendo negli ultimi 15, sono testimoniate da decine di milioni di sfollati, profughi e richiedenti asilo.
Secondo i dati dell’Unhcr, alla fine del 2014, le persone che avevano cercato di fuggire da guerre e conflitti interni assommavano a 55 milioni. Il maggior numero di loro, circa 34 milioni, veniva da Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Repubblica democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria.
La stragrande maggioranza ha trovato rifugio nei paesi vicini, spesso altrettanto poveri e non molto più stabili di quelli d’origine. Mentre, alla stessa data, il numero di quelli accolti nei 28 paesi dell’Unione europea sono stati poco più di un milione e altri 270mila negli Usa.
In maniera crescente, profughi e richiedenti asilo si trovano di fronte a disponibilità all’accoglienza in cifre risibili o alla chiusura totale di frontiere e perfino divieti di transito. Rifiuti che non vengono solo dai paesi balcanici e dell’Est Europa, ma dai paesi più potenti, come Usa, Gran Bretagna, Francia, o più ricchi, come Austria, Belgio, Svezia, Danimarca, Finlandia. La relativa disponibilità della Germania si è andata vistosamente riducendo. Mentre paesi geograficamente più raggiungibili, come l’Italia e la Grecia non fanno che reclamare la corresponsabilità dell’Ue.
Non è moralmente e politicamente tollerabile che proprio tra i più indisponibili all’accoglienza si trovino gli Stati che sono in prima fila nel promuovere azioni militari e fomentare conflitti interni nei paesi da cui fugge la maggior parte dei profughi. In questo modo, essi colpiscono due volte persone inermi, incolpevoli e disperate.
Duplice è anche l’inganno che quei governi perpetrano ai danni dei propri concittadini. In primo luogo, quando fanno credere che i costosissimi interventi militari da essi promossi sono necessari per la sicurezza e il benessere dei loro paesi. In secondo luogo, cercano di far credere che i costi dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo sono insostenibili.
In realtà le cose stanno molto diversamente.
Prendiamo, ad esempio, il caso dell’Italia. Stando ai dati del ministero dell’Interno e di quello dell’Economia e Finanze, nel 2015 il nostro paese ha impiegato poco più di 800 milioni di euro per la spesa complessiva di accoglienza dei rifugiati. Sempre nel 2015 il costo delle “missioni” militari italiane in alcuni dei paesi d’origine dei rifugiati è stato di un miliardo e mezzo di euro. Altre spese saranno da aggiungere per la spedizione militare che il governo sembra ansioso di promuovere in Libia.
La contraddizione tra indisponibilità a sostenere i costi dell’accoglienza e le spese delle azioni militari cui si partecipa, proprio nei paesi dei richiedenti asilo, è ancora più stridente in casi come quello della Gran Bretagna e della Francia. Ma considerazioni analoghe si possono fare per i paesi di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) ed altri oltranzisti nei confronti dei profughi. Infatti che anche tra loro non manca chi partecipa spesso e volentieri alle coalizioni di “volenterosi” operanti in vari scacchieri.
Per quanto li riguarda, i rifugiati non vogliono essere mantenuti. Come gli altri immigrati, essi cercano lavoro e sperano d’inserirsi al più presto nei paesi meta. Ed anche su questo occorre considerare i dati di fatto.
In realtà i rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una percentuale assai ridotta del numero complessivo degli immigrati di prima generazione ed ufficialmente censiti nei paesi d’arrivo. Si va dallo 0,6% in Usa al 3,1% in Francia. Ma anche qualora essi concorressero ad aumentare il numero complessivo degli immigrati in misura maggiore, va ribadito che questi non rappresentano un gravame per la spesa pubblica né un ostacolo per la crescita economica dei paesi ospiti. Al contrario, è dimostrato che essi rappresentano una risorsa.
Tornando all’esempio dell’Italia, le stesse fonti ministeriali ci dicono che nel 2014 l’ammontare delle tasse e contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell’8,8% del Pil. E conti simili valgono anche per gli altri paesi che sono mete preferite degli immigrati.
Ancor più importante è il loro contributo al riequilibrio demografico. Com’è ben noto, proprio nei paesi più sviluppati, la popolazione invecchia, sia per il calo della natalità che per l’aumento degli anni di vita. Il che significa che non bastano i continui tagli alla sanità e la riduzione della spesa pensionistica. Se vogliamo che quel che resta del sistema di welfare in Europa regga in qualche modo, occorre un rapido aumento della popolazione in età lavorativa. Secondo calcoli necessariamente approssimati, ma realistici e basati su dati Ocse, per il raggiungimento di tale obiettivo la popolazione europea dovrebbe aumentare di non meno di 40 milioni nei prossimi 4 anni. Il che è concepibile solo attraverso massicci afflussi di immigrati.
Se lo stato delle cose è questo, è indispensabile modificare nettamente l’approccio al fenomeno migratorio rispetto alle politiche oggi prevalenti sulle due sponde dell’Atlantico.
La seconda sfida riguarda il mutamento, a questo punto improcrastinabile, del modo di concepire e governare i rapporti internazionali.
Su questo piano, fondamentale per il futuro del mondo, stiamo assistendo al protrarsi di logiche conflittuali e di predominio nelle politiche internazionali che si ritenevano superabili dopo la fine della guerra fredda.
Nel 1990, col venir meno dell’equilibrio bipolare che aveva contrassegnato, in modo duro e minaccioso, i rapporti internazionali dopo la seconda guerra mondiale, si ritenne da varie parti che potesse schiudersi una nuova stagione. Si nutrirono speranze nella possibilità di un nuovo ordine nei rapporti internazionali. Un ordine pluripolare e basato su politiche di pace e cooperazione.
Giova ricordare che proprio tali speranze segnarono il rilancio del vecchio disegno di un’Europa unita, pacifica ed aperta verso il resto del mondo. Oltre a incoraggiare progetti di maggiore autonomia economica e politica in paesi terzi.
Ma non s’è verificato nulla di tutto ciò. All’ordine bipolare se n’è sostituito uno monopolare e affatto unilaterale. Gli Usa e i paesi della Nato, di fronte ad uno scacchiere libero dai precedenti vincoli, si sono subito lanciati in una partita economica e politica in cui hanno affermato in modo prepotente e parziale gli interessi dei propri gruppi dominanti, economici, tecnologici, tecno-militari e politici.
Si è assistito, invece, alla riproposizione di modelli e strategie di politica internazionale, aggressivi e bellicisti, non molto dissimili da quelli praticati nei decenni precedenti.
Un esempio riguarda la suddivisione e controllo di zone d’influenza da mantenere ed espandere in antagonismo con altri paesi.
Analoga continuità ha avuto la pratica di far leva sulle ambizioni di un paese in una determinata regione contrapponendole a quelle di un altro ritenuto più distante o ostile rispetto agli interessi perseguiti. Salvo verificare poi che, proprio per l’azione svolta, il regime di cui ci si è serviti ha acquistato un potere e autonomia giudicati eccessivi e, quindi, da ridimensionare. Così è accaduto per l’Iraq di Saddam Hussein, l’Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Ben Ali e simili. Altre volte, i pretestuosi obiettivi di combattere contro minacce incombenti o in difesa della democrazia sono stati agitati contro regimi ritenuti decisamente ostili, come nel caso di Mu’ammar Gheddafi in Libia e Bashar al-Assad in Siria. In ogni caso, i risultati sono stati fallimentari e hanno comportato solo grandi sofferenze per le popolazioni civili.
In altri casi non ci si è fatto scrupolo di rinfocolare vecchie contrapposizioni etniche o religiose per strumentalizzarle ai propri fini o giustificare interventi affatto arbitrari. Com’è accaduto in vari paesi dell’Africa centrale e orientale.
La logica unilaterale che si è affermata nella regolazione dei rapporti internazionali ha avuto l’esigenza della continua individuazione di un nemico e di una minaccia esterna. Il possesso di “armi di distruzioni di massa” di questo o quel regime non amico, le organizzazioni terroristiche, gli immigrati, proprio perché obiettivi indicati in maniera pretestuosa e quindi dilatati, hanno finito coll’assumere contorni tanto confusi da creare vere e proprie sovrapposizioni. Sovrapposizioni agite anche ad usi di politica interna, come strumenti di controllo sociale, competizione elettorale e quant’altro.
Proprio tali mistificazioni mostrano come ci si stia muovendo in una situazione di confusione e instabilità nello scenario internazionale. Situazione assai pericolosa e priva di prospettive.
Nonostante la fine della guerra fredda, la logica dei rapporti internazionali è rimasta unilaterale e aggressiva, basata sulla chiusura più che sull’apertura, sulla competizione più che sulla cooperazione, sull’affermazione di false identità più che sul dialogo e il riconoscimento dell’altro. Ma si tratta, appunto, di un ordine residuale e velleitario.
La spiegazione di questo stato di cose va ricercata nel fatto che l’attuale ordine dei rapporti internazionali si è costruito nella difesa dei blocchi di potere dei paesi del capitalismo storico consolidati nella contrapposizione a un’alleanza politico-militare e ad un modello sociale avversi e ritenuti pericolosi per i propri interessi dominanti.
A questo punto s’impone una svolta radicale che consenta la costruzione di un nuovo ordine internazionale foriero di pace, aperto alla cooperazione economica, alla partnership e collaborazione politica. Una siffatta impresa non può avvenire se non modificando i blocchi di potere così come si sono costituiti all’interno dei paesi euro-atlantici e nelle loro diramazioni internazionali.
Non v’è dubbio che si tratta di una sfida assai ardua. Ma non si vede come sia possibile affrontare i problemi complessi e strettamente interdipendenti del mondo contemporaneo se non in una logica e pratica dei rapporti internazionali assai diverse dalla parzialità, disordine e assenza di prospettive che caratterizzano quelle attuali.

Intervento al Seminario La guerra globale e la pace come politica, organizzato da Sinistra Italiana, Roma, 11 marzo 2016