Conviene partire dal processo di ristrutturazione tardocapitalista che prese le mosse dalla crisi dovuta all’abbassamento del tasso di profitto verificatosi nei primi anni ’70. Processo che ha riguardato in particolar modo Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, cioè i paesi centrali del capitalismo storico, ma che ha avuto effetti diretti e indiretti, sempre più stringenti, sui paesi emergenti e in via di sviluppo, nonché su quelli ex socialisti.
Se, oggi, lo sviluppo economico di paesi come Cina, India, Federazione Russa, Brasile, Messico, il cui PIL, a parità di potere d’acquisto, si è inserito ai primi posti della graduatoria internazionale, scavalcando in alcuni casi le posizioni di paesi di più antico sviluppo, ciò è dovuto proprio ai rapporti stabiliti con questi paesi da quelli del capitalismo storico.
Ovviamente, tali cambiamenti non hanno riguardato solo l’economia, ma hanno avuto importanti conseguenze sociali sia nei paesi di più antico sia in quelli di nuovo sviluppo. Così come sono stati importanti le politiche perseguite, nello stesso periodo, dai governi nazionali e dalle istituzioni internazionali nel concorrere a ridisegnare la mappa del mondo contemporaneo.
La mia ipotesi interpretativa è che la crisi di sistema cui siamo giunti è dovuta principalmente all’esaurimento del capitalismo dei consumi. I limiti (ecologici, economici, sociali e di razionalità politica) e l’insostenibilità di questo modello di sviluppo sono oggetto di analisi critica da decenni.
Ma proprio il processo di ristrutturazione tardocapitalista ha permesso il protrarsi di questo tipo di sviluppo ed anzi ne ha promosso la propagazione ad altri paesi storicamente caratterizzati da modelli sociali molto diversi. Sicché questi, conformandosi, più o meno forzosamente, al processo di modernizzazione dominante, ne hanno seguito le linee principali, pur nelle differenze peculiari dei vari contesti.
Le strategie di superamento della crisi che sono state adottate dai più importanti gruppi imprenditoriali, supportati generalmente dai governi, e che hanno costituito gli assi portanti della ristrutturazione di cui stiamo parlando sono stati 3 (delocalizzazione produttiva, automazione spinta, finanziarizzazione del capitale).

1. La prima di tali strategie è consistita nel fatto che, dagli inizi degli anni ’80, imprenditori grandi e medi hanno aperto un secondo e sempre più ampio fronte della delocalizzazione di parte delle loro produzioni e degli investimenti all’estero. (Se nei decenni precedenti tali investimenti riguardavano principalmente la cerchia dei loro partner abituali, ovvero gli altri paesi maggiormente sviluppati. Proprio perché anche questi attraversavano analoghe difficoltà), la nuova ondata di delocalizzazioni ed investimenti all’estero ha riguardato un arco ben più ampio di paesi, privilegiando quelli che offrivano grandi riserve di forza lavoro a basso costo e dove essa poteva essere sfruttata senza particolari vincoli legislativi o sindacali. Assenza di vincoli che riguardava anche altri aspetti, quali la difesa dell’ambiente, obblighi fiscali e altri.
L’entità del fenomeno è stata molto più grande di quanto si è soliti pensare. Ed è andata crescendo fino ad oggi. E’ utile menzionare alcuni dati.

Stock d’investimenti all’estero a fine anno in percentuale del Pil
______________1990      2000      2010      2015       2019       2020
Francia………………….   8,9…… 33,6…..  59,8 ….. 52,0…..   56,0….. ..66,0
Germania………………   7,6…..  25,8…..  43,5 ……42,9……  46,0……. 52,0
Italia……………………..    5,3….. 16,4……. 23,2…… 25,0……..28,0……. 31,6
U K……………………….   23,3……62,5…….75,1……. 54,8……..67,0…….76,0
USA ………………………..   10,7……14,4…… .30,7…… 33,3……..36,0…….38,6

Posti di lavoro potenziali in rapporto alle percentuali di Pil delle delocalizzazioni
(calcolati secondo la legge di Okun)

____________________2010              2015                2019              2020
Francia………………………………. 6.117.061……5.900.000……. 6.087.200…..7.201.920
Germania…………………………….7.047.870 …..7.400.000……. 7.770.136……8.681.920
Italia…………………………………….2.123.356……2.600.000……. 2.616.320….. 2.865.488
U K…………………………………….. 8.722.114…… 8.900.000……. 8.790.132….. 9.889.120
USA…………………………………….17.077.796…  19.200.000 ….22.684.176….22.818.776

2. In secondo luogo, grazie ad alcune applicazioni della microelettronica, è stato possibile assicurarsi un elevatissimo grado di automazione nella produzione industriale e nella informatizzazione dei servizi. Una forte automazione non era certo un obiettivo nuovo nella storia del capitalismo industriale, che è cominciata proprio con l’introduzione del telaio meccanico (e a vapore) ed è proseguita con la catena di montaggio, ecc. Ma nuovi e prima impensabili sono stati i livelli dell’automazione resi possibili dalla rivoluzione microelettronica. Anche questa risposta ha consentito grandi risparmi di manodopera per produrre una stessa quantità di beni e servizi. Inoltre, essa ha favorito la delocalizzazione in paesi con forza lavoro poco o per nulla qualificata.

3. Sempre per rispondere nel modo più rapido e facile all’abbassamento dei tassi di profitto dei primi anni ‘70, quote crescenti di capitali hanno preso la strada degli investimenti finanziari. Anche in questo caso, i dati dimostrano le inusitate proporzioni del fenomeno. Da esse ha preso l’avvio una rapida crescita di potere ed autonomia del capitale finanziario, che presto ha assunto una posizione dominante nell’intero sistema economico.

Queste tre strategie e il loro intreccio hanno consentito di riguadagnare i livelli di profitto precedenti la crisi degli anni ’70 attraverso le vie brevi e più facili, evitando d’impegnarsi nell’innovazione della produzione, della tipologia dei prodotti e dell’organizzazione del lavoro; in tal modo, esse hanno consentito il perpetuarsi di un modello di sviluppo giunto a scadenza e con la cui obsolescenza occorre, oggi, fare i conti.

Tutto ciò ha provocato profondi mutamenti nel mercato internazionale del lavoro.
Basti pensare al verificarsi di un fenomeno affatto nuovo nella storia: vale a dire, l’incrocio di due grandi migrazioni: 1) quella degli emigranti dai paesi più poveri alla ricerca di lavoro nei paesi centrali e più ricchi e 2) quella, affatto inedita, avvenuta in senso contrario e dovuta alla delocalizzazione delle attività produttive dai paesi centrali verso quelli periferici. Ed è indubbio che le dimensioni straordinarie di tale duplice migrazione e soprattutto della delocalizzazione produttiva verso i paesi in via di sviluppo hanno creato la più vasta riserva di manodopera mai esistita e neanche immaginata.
Conseguenza primaria è stata che imprenditori di tutti i settori hanno avuto mano libera, come mai prima, nel perseguire una forte concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione.
Inoltre, la delocalizzazione, congiunta all’automazione spinta, resa possibile da determinate applicazioni della microelettronica, ha consentito un’ulteriore dequalificazione, intercambiabilità e, quindi, precarietà del lavoro. Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei rapporti di lavoro nei paesi più sviluppati. Ma pesa anche, come un vincolo quasi obbligato, nei paesi del Sud del mondo destinatari della delocalizzazione, nei quali il super-sfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.
In realtà, il fenomeno è ancor più complesso e concerne un processo più generale di mercificazione, che è consustanziale alle nuove forme assunte dal capitalismo dei consumi e che riguarda, oltre al lavoro, la natura.
Nei paesi di più antico sviluppo la crescente mercificazione e precarizzazione del lavoro ha ridotto drasticamente decenni di conquiste sindacali e politiche, che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità sociale nel suo complesso. Ciò che è venuto meno è la funzione del lavoro nell’organizzazione sociale. La drastica riduzione e tendenziale eliminazione di tale funzione provoca un’instabilità critica del sistema………….

D’altra parte, una delle conseguenze più vistose del rafforzamento dei gruppi di potere dominanti è stata, appunto, una decisa accentuazione della precarietà e intercambiabilità della forza lavoro.
Tale fenomeno è stato il risultato scientemente perseguito di nuove forme d’impiego e sfruttamento dei lavoratori, tali da renderli più facilmente dipendenti dagli andamenti di mercato.
Il moltiplicarsi delle forme di lavoro precario ha assunto ben presto i connotati di una delle instabilità critiche che fanno parte del nuovo modo di funzionamento del sistema. In altre parole, la crescente precarizzazione del lavoro è divenuta un aspetto saliente della morfologia della “società della crisi” o, se si preferisce, della “società precaria”.
Per individuarne meglio i contorni è utile riassumere brevemente le forme di lavoro precario più diffuse negli ultimi anni, nonché la loro incidenza.
Per economia di tempo mi riferirò alla situazione italiana, ma spero di riuscire a fare cenni di confronto con quelle dei maggiori paesi europei e degli Usa.
In primo luogo sono da considerare i contratti di lavoro a tempo determinato. Essi possono riferirsi anche a forme tradizionali, quali i lavori stagionali (specie in agricoltura e nell’edilizia), all’apprendistato e ad altre, ma di cui si è dilatato notevolmente ed alterato l’impiego nell’ultimo quarantennio
Sempre più diffusi i contratti di formazione lavoro che, nati per attenuare l’impatto negativo dei processi di ristrutturazione di cui dicevo, sono stati poi utilizzati come forme d’impiego dipendenti dall’andamento congiunturale, ma condizionati anche dalla legislazione.
Sono invece relativamente più recenti forme come quelle del lavoro interinale, del lavoro, cioè, preso in affitto attraverso apposite agenzie che lo organizzano.
Altri contratti possono essere definiti a tempo parziale in senso più stretto: ad esempio, contratti di lavoro a turni, che possono svolgersi in modo variato nell’arco della giornata, della settimana, dell’anno.
Vi sono inoltre lavori precari connessi a nuovi sistemi come, ad esempio, quelle prestazioni di telelavoro che vengono gestite dai dirigenti d’azienda con una logica di cottimo, più o meno evidente.
Sono poi da considerare i lavori parasubalterni che assumono le più varie vesti di lavoro autoregolato, ma che in realtà obbediscono anch’essi a logiche di cottimo variamente mascherate. Rientrano in questa categoria, ad esempio i lavori a progetto e similari
In una rassegna, per quanto rapida, occorre accennare anche alle forme di flessibilità del lavoro che non si esprimono in distinte tipologie contrattuali, ma che si affermano di fatto all’interno di contratti a tempo indeterminato.
Anche in questi casi, infatti, sono richiesti, in modi sempre più pressanti, adattamenti ai tempi di lavoro e alle stesse forme di remunerazione, secondo una variabilità che può essere molto accentuata. Ad esempio, i salari possono essere differenziati a seconda della produttività del lavoro (indipendentemente da quantità e qualità delle prestazioni). Gli orari e i tempi possono variare in dipendenza delle più diverse esigenze aziendali. Possono essere disposti trasferimenti interni tra tipi di lavorazioni, reparti e perfino sedi dell’azienda. In taluni casi il lavoratore può essere, per così dire, “delocalizzato”, non avere cioè alcuna destinazione lavorativa stabile o preferenziale.
Un’analisi quantitativa comparata di questi fenomeni nei maggiori paesi europei e negli Usa non è agevole per la varietà dei dati e i differenti criteri statistici adottati nella loro elaborazione. Tuttavia un’idea generale dell’andamento di questi fenomeni e del loro infittirsi negli ultimi decenni la possiamo avere facendo riferimento ad alcuni quadri statistici dell’Ocse, che mi riservo di allegare in appendice.

Ora m’interessa soffermarmi su 3 conseguenze che l’aggravarsi quantitativo e qualitativo della precarietà del lavoro hanno avuto nella decostruzione del modello sociale formatosi in Europa occidentale
neidecenni successivi alla II guerra mondiale

I Una prima conseguenza della precarietà del lavoro nel concorrere alla decostruzione di quel modello storico è ben rilevabile nel netto ridimensionamento dello Stato sociale. Infatti viene meno il primo obiettivo e, al tempo stesso, il requisito principale di un sistema di welfare, vale a dire la sicurezza del lavoro e il mantenimento del reddito. Sicché in tutti i casi in cui l’uno o l’altro venivano a mancare, per disoccupazione, malattia, vecchiaia, si poteva contare su provvedimenti di solidarietà sociale il cui diritto era riconosciuto anche sul piano costituzionale.
Viceversa, la concezione della precarietà del lavoro come un dato acquisito, quasi fisiologico della nuova realtà sociale porta (già dalla seconda metà degli anni ’70) non solo a teorizzare e praticare una netta riduzione delle politiche di welfare, ma anche a un ribaltamento del loro significato e funzione. Invece di costruire un sistema di sicurezza sociale il cui scopo è di migliorare le condizioni di lavoro e di vita dei cittadini, il welfare si riduce ad un mero sistema assistenziale che interviene per puntellare e rendere minimamente sostenibile il venir meno o la riduzione del lavoro e per soccorrere gli ultra bisognosi.
Nella concezione neo-assistenzialista, il venir meno o la diminuzione del reddito non vengono compensati in maniera adeguata e certa se e in quanto dipendenti da cause naturali o crisi sociali previste dal patto di solidarietà; ma sono controbilanciate, in misura molto più limitata, quando peggiorino in conseguenza degli obiettivi e delle scelte degli stessi gruppi dominanti. Per converso, viene incoraggiata la privatizzazione dei servizi e delle assicurazioni.
In tal modo, ridotta severamente la rete di protezione sociale, il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di larghi strati della popolazione è molto più esposto ai meri andamenti di mercato.
I provvedimenti di welfare tornano ad essere concepiti e rimodulati nella logica dell’assistenzialismo paternalistico che vigeva nella formazione sociale tradizionale e prima della rottura di quella dipendenza. Rottura determinata dalle grandi lotte e dall’autorganizzazione delle classi lavoratrici nell’Europa di fine Ottocento e primo Novecento.
Ma non si può non ribadire che quella rottura segnò l’inizio di un lungo percorso che, attraverso altri conflitti sociali e scontri politici, continuò ad incidere profondamente nel lungo e travagliato processo in cui si formata la società di massa.

II La seconda conseguenza è riscontrabile nella messa in crisi di tutto un modello sociale.
A partire dalla ricostruzione economica e democratica del secondo dopoguerra, le classi lavoratrici europee hanno ulteriormente intensificato le lotte rivendicative, eccedendo spesso l’ambito sindacale stretto e battendosi per riforme sociali più generali. Questo fatto ha favorito la formazione di più larghi movimenti democratici, nel senso che, accanto alla rivendicazione di diritti di cittadinanza sociale, si innestava una riproposizione, rinnovata e allargata, dei diritti civili e politici.
Se è attraverso questa via che si sono avuti la rifondazione, prima, e il rinnovamento e l’ulteriore sviluppo, poi, delle basi della democrazia in Europa occidentale nei decenni successivi alla seconda alla seconda guerra mondiale, è chiaro che il modello sociale così formatosi ha un’originalità e sostanza storica irriducibili.
Ne consegue che gli attacchi portati da più parti e sempre più frequentemente, ai diritti dei lavoratori, allo Stato sociale e ad altre conquiste di movimenti collettivi (come quello ecologista, femminista, di difesa dei diritti civili) portano a una revisione e riduzione dei diritti e conquiste storicamente consolidati. Con la conseguenza di colpire un intero modello sociale e di comprometterne la stessa capacità di funzionamento.
Non si tratta solo della precarietà del lavoro e/o del welfare. In realtà è tutto un livello dell’organizzazione e della qualità sociale che entra in crisi. Né viene proposta un’alternativa.
La cosiddetta prospettiva “neoliberista”, che viene indicata attraverso la precarietà del lavoro, lo smantellamento dello Stato sociale, la deregulation, la riduzione dei poteri e dei controlli dello Stato democratico non costituiscono un nuovo modello sociale. In realtà ci troviamo oggi in assenza di una morfologia sociale, coerente, equilibrata, capace di funzionare e, soprattutto, di evolvere.
La decostruzione di un modello storicamente formato attraverso una costante dialettica sociale e politica comporta l’allentamento dei legamenti sociali e lo svuotamento della democrazia.

III La precarizzazione del lavoro, il moltiplicarsi delle forme di tale precarietà e la dilagante estensione del fenomeno hanno anche una terza, disastrosa conseguenza che non è meno preoccupante delle precedenti. Essa, infatti, favorisce l’affermarsi di una nozione e di una realtà del lavoro come mero strumento di produzione del reddito.
Ridotto in questi termini, il lavoro perde ogni significato e valore rispetto al funzionamento sociale e non può essere più considerato base e titolo per la rivendicazione di diritti di cittadinanza, sia politica che sociale.
Eliminata ogni resistenza possibile e portate a termine una riduzione e una soggezione delle condizioni lavorative perseguite da tempo, completata cioè un’evoluzione, già oggi molto avanzata, di riduzione del lavoro a merce, il lavoro non potrà che sottostare alle logiche parziali, meramente utilitarie e affatto contingenti che governano il mercato.
Proprio l’occultamento e rimozione dell’utilità e della funzione sociale del lavoro permetterà di prescindere da esso e di ricorrere ad altri riferimenti e strumenti nei processi di identità e di regolazione dei rapporti sociali obbedienti alla logica del mercato.
I soli interessi di mercato potranno in maniera ancora maggiore e incontrastata dell’attuale, determinare le relazioni di trasformazione del sistema.
Si tratta, in realtà, di un modello anomico, che, come tale, comporta diverse tendenze di crisi. Senza fornire gli strumenti per far fronte alle crisi da esso stesso provocate. Vale a dire: squilibri ambientali, limiti dello stesso sviluppo economico, disuguaglianze sociali crescenti, depoliticizzazione e privatizzazione dei rapporti sociali, delegittimazione dello Stato, difficoltà di integrazione socioculturale e altre.
Il modello sociale del tardo capitalismo sembra volere e poter convivere con le sue stesse tendenze di crisi, quasi facendone tratti perduranti e propri del suo modo di funzionamento. In altri termini il modello attualmente perseguito dei gruppi dominanti nei paesi del tardo capitalismo sembra ammettere una soglia di instabilità critica accentuata e persistente.
La stessa precarietà del lavoro si configura come una componente di questo modo di funzionamento del sistema.
Questo dato, del resto, è tutt’altro che isolato. Esso è accompagnato, direi quasi intrecciato, ad altri aspetti dell’instabilità critica: come la sempre più accentuata privatizzazione dei rapporti sociali, l’affermarsi di logiche meramente utilitaristiche in molte forme della sociabilità e perfino nei rapporti interpersonali.
Sembra, davvero, di trovarsi di fronte a una morfologia sociale acefala, dimentica e incurante dei luoghi della responsabilità, delle coordinate di senso indispensabili per compiere le scelte anche individuali. Una morfologia sociale, insomma, depoliticizzata nel senso più generale del termine.
Come superare quella che sembra, ormai, una vera e propria crisi di anomia? Come ricostruire i luoghi della responsabilità, il senso e i fini delle scelte da compiere?
Certamente occorrono diversi piani d’analisi per tentare di trovare elementi di risposta almeno iniziali e ipotetici.
Dal punto di vista storico, sembra plausibile e necessario pensare proprio a un nuovo patto sociale, di portata e significato non inferiori a quello che fu stipulato nel secondo dopoguerra, anche se con caratteri e riferimenti necessariamente diversi.
In ogni caso, penso che tra gli elementi caratterizzanti di un rinnovato patto sociale un elemento fondativo vada riproposto con decisione: vale a dire, la centralità del lavoro e del riferimento ad esso come base per la rivendicazione e la stessa concezione dei diritti sociali.
Occorre quindi, riproporre e rielaborare, nei nuovi termini della realtà contemporanea, una concezione del lavoro come espressione piena della volontà e dell’intelligenza della persona, accanto al riconoscimento della sua insopprimibile funzione sociale. Funzione che non può essere certo svolta dal mercato la cui logica è parziale, meramente utilitaria e costitutivamente irresponsabile.
Occorre ripristinare il riferimento al lavoro come base della concezione e rivendicazione dei diritti e, quindi, come valore fondante della democrazia
La scelta alla fine è chiara. O si difende e si rilancia, rinnovandola, una concezione del funzionamento e della legittimazione sociale fondate sul lavoro, o la logica del mercato, per sua stessa natura parziale e strumentale, sarà definitivamente elevata a parametro e criterio unico del funzionamento sociale.
Se saremo capaci di invertire la tendenza, potremo aprire la via di un rinnovamento e ampliamento, quanto mai necessari, della cittadinanza politica e sociale. In altri termini, riaprire la società alle trasformazioni necessarie alla sua evoluzione in quanto organismo vivente.

(Lezione tenuta il 26 gennaio 2023 nel ciclo di Lezioni interdisciplinari di Officina dei Saperi)