Il dramma scritto da Piero Bevilacqua è straordinario. Tommaso Campanella è vivo e ci parla, come se fosse qui, tra noi. Ci parla di rivolta, profezia e utopia, che sono strettamente connesse, e la sua voce suona nel nostro presente. Ci dice della sua come della nostra ricerca di una leva potente per rovesciare il mondo, un mondo tanto ingiusto quanto dominato da poteri molto forti e assai difficili da abbattere.
Ed è questo l’argomento della discussione che si svolge già nella seconda scena del I atto del dramma.
Siamo nel 1588. Tommaso Campanella ha vent’anni, ma è già noto ed influente ben oltre la cerchia conventuale e gli ambienti ecclesiastici. In un casolare di campagna a Nicastro (oggi parte del comune di Lamezia Terme) egli incontra alcuni dei suoi più cari e fidati amici, Maurizio de Rinaldis, Dionisio, Ferrante e Pietro Ponzio. S’incontrano per discutere i loro progetti di rivolta contro il dominio spagnolo nel Regno di Napoli. Dominio, com’è ben noto, esteso al Ducato di Milano e con influenza indiretta in Toscana e Genova.
Alla riunione Campanella si presenta in compagnia di un pastore e di un calzolaio sostenendo, tra le perplessità degli altri, l’importanza della partecipazione dei ceti popolari alla rivolta e l’apporto determinante che possono darle. L’argomento più dibattuto è la maturità o meno di un tentativo insurrezionale. L’aristocratico de Rinaldis è tra i più convinti che sia tempo di agire.
In realtà, le condizioni in cui versa la popolazione, in Calabria e nel resto del Regno, sono pessime. La maggior parte della popolazione, già soggetta da tempo a condizioni di vita ai limiti della sussistenza e oltre, è ulteriormente angariata dall’imperversare di mercanti che speculano nel modo più cinico e sfrenato sul prezzo del grano e di altre derrate essenziali. Peraltro, il peso della fiscalità degli spagnoli grava in maniera crescente anche sugli strati alti della società. E sempre meno tollerabili sono la protervia e, spesso, l’arbitrio con cui esercitano il potere il Viceré e i suoi cortigiani. Il che spiega il malcontento che serpeggia in modo sempre più insistente anche tra le fila di parte della nobiltà e dell’alto clero.
Ma Tommaso Campanella si mostra politicamente molto più realista e Piero Bevilacqua gli fa dire: “Amici abbiamo bisogno di tempo per trascinare gli spiriti arditi, per formare il nostro piccolo esercito…il popolo brucia di rabbia, ma non scorge la fonte della sua schiavitù”(qui e dopo, in corsivo le frasi dell’autore).
E poco dopo Bevilacqua sottolinea l’intreccio essenziale che per Campanella avevano presagi, profezia e rivolta. Infatti Tommaso soggiunge: “La nostra forza è niente di fronte a questi giganti armati. Abbiamo bisogno di una potenza astrale che rompa le catene del dominio presente. Machiavelli oracolava che per conquistare stati occorre astuzia e fortuna. Noi dobbiamo guardare dentro le figure del tempo e apprendere quando scorrono le congiunture avverse…Allora udremo inauditi fragori alzarsi dal fondo dello Jonio e tremuori e alluvioni, assisteremo a carestie e pestilenze…Si vedrà l’ordine delle cose disfarsi…Allora le catene dell’oppressione diventeranno visibili e gli uomini, folgorati dalla visione dell’ingiustizia, si ribelleranno. In quell’ora tutto sarà possibile…E noi agiremo”.
Vorrei sottolineare che qui l’autore, da un lato, espone in poche righe e con grande capacità di sintesi un luogo fondamentale del pensiero campanelliano. Dall’altro, lo fa in termini che, a me, sono parsi affatto corrispondenti alla contemporanea epistemologia della complessità. Infatti è proprio di un sistema complesso (qual’ è un sistema sociale), il fatto che quando esso giunge ad un punto d’instabilità critica si apre ad un arco di possibilità tali per cui anche idee o agenti, prima limitati e ininfluenti, possono diffondersi rapidamente trasformando l’intero sistema.
Questa ed altre implicazioni epistemologiche del pensiero di Tommaso – molto stimolanti anche per i teorici della conoscenza di oggi – sono ben ravvisabili in vari brani delle sue opere.
Ma dobbiamo tornare alla scena della riunione di Nicastro perché all’obiezione di De Rinaldis: “Ma cosa possono i cieli di fronte alle cose terrene?” L’autore fa rispondere Campanella in questo modo: “La profezia è la condizione necessaria della rivolta. Tutti i viventi la posseggono in diverso grado… Con la profezia [gli uomini] vedono gli eventi in anticipo, come accade talora con i sogni.” E aggiunge: ”Senza la profezia non si disvela la realtà possibile”.
Per non allontanarmi dall’intreccio di problemi che ho deciso di trattare in questa sede, vale a dire il rapporto tra presagi, predizione e rivolta, passo al III Atto.
Siamo nel fatidico 1599. I presagi sembrano appalesarsi. L’attesa del nuovo secolo sembra annunciata da alcuni fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del Tevere, allagamenti e terremoti in Calabria, il passaggio di una cometa, profezie e coincidenze astrologiche.
E a tali presagi l’autore dedica la prima scena dell’Atto terzo. La voce fuori campo li enumera e conclude: “L’uragano della liberazione soffia in ogni angolo della terra e gli uomini si destano, mentre attorno crollano in un generale schianto le ultime colonne dell’oppressione. Si schiude l’aurora dei tempi nuovi”.
Di fatti, nell’illusione di tali presagi, Campanella cominciò, all’inizio del 1599, a predicare l’imminente rivolgimento e passò all’azione tirando le fila della rete di contatti con i congiurati che aveva tessuto negli anni precedenti. Ma gli uomini del Vicerè ebbero ben presto sentore del tentativo insurrezionale ed infittirono i controlli. Tommaso tentò di sfuggire alla presa e progettò d’imbarcarsi, ma fu tradito e consegnato alle truppe spagnole il 6 settembre. Trasferito a Napoli, insieme ad alcuni dei suoi compagni, fu rinchiuso in Castel Nuovo.
Nonostante i presagi, il sistema si dimostrò affatto stabile e poco vulnerabile.
La cocente delusione di Tommaso è rappresentata nella seconda scena del terzo Atto. In un casale di Roccella Jonica, da dove Tommaso progettava di fuggire via mare, egli incontra Dionisio Ponzio cui, poco dopo, si aggiunge Maurizio De Rinaldis. “E’ tutto perduto– dice Tommaso – il nostro castello si è schiantato e ancora non avevamo alzato le prime pietre”. Non resta che constatare che Carlo Spinelli, incaricato della repressione, è stato informato, giacché le sue truppe si muovono “…come se possedessero le mappe dei nostri piani. Arrivano con sicurezza dove sono i nostri…”
Nel colloquio con Dionisio e poi anche con Maurizio, le conclusioni di Tommaso non possono essere più amare: “Il popolo ignora la sua forza. Potrebbe schiantare i cardini dell’ordine sociale. E invece geme nell’oppressione senza reagire. Anzi, azzanna il piede di chi vuol liberarlo”.
Il Campanella del dramma di Bevilacqua aggiunge una considerazione storica ” La Chiesa aveva ridato a Roma una nuova corona universale…L’Italia .. centro della fede cristiana era divenuta lume di fratellanza per tutti i popoli della Terra”. Mentre, ora, all’ulivo si è sostituita la spada.
E a Dionisio, che parla del tradimento del Vangelo, risponde: “Quando la ribellione diventa potere si fa amica dei potenti. Accade così di tutte le rivolte. Se non vengono alimentate dal popolo…si spengono, precipitano in tirannide”.
Si tratta di una considerazione storica fondamentale che Piero Bevilacqua fa dire al suo protagonista. In realtà, credo si possa affermare che tutte le rivoluzioni, anche quelle dell’età contemporanea, dalla francese alla russa, si sono trasformate da fiamme in cristalli…Gli ardori e le speranze degli inizi si sono come fossilizzati, lasciando il posto ad apparati burocratici e oppressivi.
Tuttavia, la sconfitta della rivolta non spense la voce di Campanella che nel 1602 scrisse La Città del Sole e negli altri anni passati in carcere, fino al 1626 a Napoli ed alla liberazione definitiva, dopo il trasferimento a Roma nel 1629, scrisse ancora opere importanti come Atheismus triumphatus (1605-7), Quod reminiscetur (1606), Metaphysica (1609-23), Theologia (1613-24).
Merito indubbio del dramma scritto da Piero Bevilacqua è, come dicevo all’inizio, far sentire tutta la vitalità di quella voce, che parla a noi e che continuerà a farsi sentire dopo di noi.
E possiamo aggiungere che questa è la caratteristica di eretici, rivoluzionari ed utopisti. Infatti, se ripercorriamo le pagine della nostra storia, non troviamo riforma religiosa, rivoluzione sociale, politica, scientifica che non sia stata frutto del pensiero e dell’iniziativa di piccoli gruppi, talora singoli individui, che, in contrasto con i paradigmi dominanti, hanno innescato i mutamenti storici.
Alcuni di loro hanno avuto subito largo consenso e seguito. Altri sono stati il seme di una coscienza collettiva più lenta a formarsi e perfino futura.
Anche sotto questo riguardo la loro incidenza nelle trasformazioni storiche è paragonabile alla funzione svolta dagli elementi mutageni nell’evoluzione naturale. L’evoluzione della nostra come delle altre specie viventi, per concludere con un’assimilazione tanto importante ed insistita nella concezione di Tommaso Campanella.
(Dalla presentazione del dramma di Piero Bevilacqua su Tommaso Campanella. Bologna 3 maggio 2019)