I risultati fortemente deludenti della Cop26 hanno messo in evidenza alcune contraddizioni di fondo del sistema capitalista che si sono acuite nell’ultimo cinquantennio in corrispondenza della sua massima espansione e penetrazione in contesti diversi.
La principale e ben nota consiste nello sfruttamento sempre più sfrenato delle risorse naturali occorrenti ad una produzione mirante unicamente al maggior profitto realizzabile nell’immediato ed incurante delle conseguenze.
A questo sfruttamento si è accompagnata la sopraffazione dei Paesi tecnologicamente e militarmente più forti su quelli in via di sviluppo, tanto più quando ricchi di materie prime. Infatti i Paesi più industrializzati esercitano il monopolio, sia sui prezzi delle materie prime, che hanno gli strumenti per trasformare, sia su quelli dei prodotti della loro trasformazione, di cui necessitano i Paesi meno sviluppati. Il che ha strozzato uno sviluppo autonomo ed originale dei secondi ed ha accentuato la loro dipendenza dai primi.
Tutto ciò ha reso sempre più agevole il saccheggio delle risorse del sottosuolo e del suolo di molti Paesi del Sud del mondo. E, al tempo stesso, li ha spinti a puntare prevalentemente sull’esportazione delle loro materie prime, a cominciare dai combustibili fossili, che coprono l’85%, del fabbisogno energetico mondiale e concorrono all’emissione di anidride carbonica pari al 76% dei gas serra. Beninteso, vasti giacimenti di combustibili fossili non mancano negli Stati più industrializzati del Nord. Ma, da un lato, essi vi hanno già attinto ampiamente; dall’altro, il fabbisogno energetico non fa che crescere per alimentare una mega-macchina in continua espansione. Negli ultimi decenni è aumenta notevolmente anche la domanda di altri minerali impiegati nelle nuove tecnologie per usi civili e militari, che concorrono non poco all’inquinamento. Né sono trascurabili le emissioni di metano e protossido d’azoto, dovute principalmente all’industrializzazione agricola e zootecnica.
A questa si è intrecciata la seconda contraddizione tipica del capitalismo: la dilatazione crescente di diseguaglianze, vuoi tra paesi di maggiore e minore sviluppo, vuoi all’interno degli uni e degli altri. Ed anche questo non fa che acutizzare i motivi di contrasto e antagonismo.
La terza contraddizione deriva dalla competizione inter-capitalista che provoca una contrapposizione sempre più accentuata tra Stati.
Il risultato di tali contraddizioni è un riscaldamento globale che ha superato 1,2°C e che è necessario contenere entro 1,5° entro il 2030 per evitare il rischio di superare i 2°. Soglia oltre la quale potrebbe innescarsi un meccanismo fatale per cui la Terra reagirebbe amplificando il riscaldamento e vanificando qualsiasi tentativo di abbattere le emissioni, con conseguenze catastrofiche.
I governanti convenuti a Glasgow conoscono bene questo stato di cose. Eppure in molti hanno parlato di gradualismi nei tempi o parzialità d’impegni. Di fronte a tale cecità dovrebbe esser chiaro che non si può arrestare il riscaldamento del pianeta senza un cambiamento totale del sistema dominante.
Ad esso va contrapposta una cooperazione stretta e solidale, senza discriminazioni né competizioni di sorta. Una cooperazione del tutto paritaria e animata dalla più completa convergenza d’intenti. Solo una svolta di questa portata può salvarci dalla minaccia più distruttiva che incombe sul futuro della specie.
Il movimento attivo su questo fronte, per ampiezza e diffusione nel mondo, è del tutto inedito. Ma la denuncia, pur vigorosa, non basta. E’ necessario che i suoi militanti passino dalla protesta alla lotta. Per questo (come è accaduto altre volte nella storia dei movimenti di massa) occorre un’auto-organizzazione in grado di esercitare forti spinte dal basso e trovare nuove forme di conflittualità coerenti con i valori, i modelli sociali ed i comportamenti collettivi che si vogliono affermare.

(pubblicato su “il manifesto”, 1 dicembre 2021)