La crisi economica e politica del capitalismo contemporaneo è una crisi di sistema. Ed ha ragione chi parla di una stagnazione senza fine. Una crisi che pone, quindi, il problema o di una correzione profonda del sistema e tale da modificarne la morfologia o che comporta il suo completo superamento. Ed è questa la tesi sostenuta da Luciano Gallino nel suo ultimo libro Il denaro il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, Torino 2015. L’analisi storica conferma pienamente questa tesi.

Il punto di svolta si ha nei primi anni Settanta. La società dei consumi esaurisce la sua spinta propulsiva senza che appaia possibile la sua esportazione in paesi del Sud del mondo.

Il segno più evidente e significativo è consistito in un netto calo dei tassi di profitto protrattosi per tutti gli anni ’70 nei paesi più industrializzati. Sia negli Stati uniti che nella media riguardante Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, la diminuzione dei tassi di profitto rispetto al capitale investito è stata di circa 5,5 punti percentuali tra il 1970 e il 1980: una discesa pesante, difficile da arrestare con misure congiunturali e interventi tradizionali.

A quel punto, i maggiori gruppi imprenditoriali, di qua e di là dall’Atlantico si sono trovati di fronte ad un bivio. Da un lato, era possibile riguadagnare i margini di profitto perduti innovando metodi di produzione, tipi di prodotti e organizzazione del lavoro. Ma ciò implicava maggiori e più coraggiosi investimenti, nonché mutamenti nei sistemi di vita (abitazioni, trasporti, comunicazioni, beni d’uso personale, domestico, ecc.) che avevano caratterizzato la società dei consumi nei decenni precedenti. Dall’altro lato, si poteva ricorrere a scorciatoie e soluzioni più facili senza cambiare scenari e rapporti sociali. Si è imboccata la seconda, più facile strada e le risposte alla crisi sono state di tre ordini.

   La prima ha dato luogo ad una massiccia delocalizzazione delle attività produttive in paesi in via di sviluppo dove era possibile lo sfruttamento di manodopera a basso o bassissimo costo, nonché sfuggire a vincoli ambientali ed obblighi fiscali abbastanza regolamentati. L’entità del fenomeno è stata e continua ad essere molto maggiore di quanto si lasci trapelare. Nel 2015 gli investimenti diretti all’estero (escluse ovviamente le transazioni finanziarie), in Italia sono stati pari al 25% del Pil, in Francia hanno raggiunto il 51%, in Germania il 42%. In Gran Bretagna gli investimenti all’estero hanno rappresentato il 54% del Pil. Perfino negli Usa, paese che si suppone centripeto più che centrifugo, sempre nel 2015, gli investimenti diretti all’estero sono equivalsi al 33% del Pil. E’ chiaro che una delocalizzazione produttiva di queste proporzioni ha comportato milioni di posti di lavoro in meno nei paesi d’origine. Infatti un calcolo basato sulla legge di Okun dimostra che i dati della delocalizzazione menzionati prima  equivalgono a 2,6 milioni di posti di lavoro potenziali. In Italia, 5.9 milioni in Francia, 7.4 milioni in Germania, 8.9 milioni in G.B., 19,2 milioni negli Usa.

   La seconda risposta ha riguardato un’automazione senza precedenti della produzione di beni e servizi, resa possibile dalla rivoluzione microelettronica. Com’è ben noto, i portati di quella rivoluzione sono stati straordinariamente innovativi nei settori dell’informazione e della comunicazione. Mentre le applicazioni introdotte nelle tecnologie produttive hanno obbedito alla stessa logica che ha caratterizzato tutta l’età industriale fin dall’introduzione del telaio meccanico. Una logica volta a ridurre la manodopera occorrente ad una stessa quantità produttiva, a favorire l’impiego di quella meno qualificata e, perciò, più facilmente intercambiabile e precaria, nonché meno remunerata. Luciano Gallino è stato tra i primi a studiare e sottolineare la portata del fenomeno, che non riguarda solo il lavoro operaio, ma gran parte di quello impiegatizio e professionale.

   La terza risposta ha visto un progressivo e rapido spostamento degli investimenti dalla produzione alla speculazione finanziaria. Contemporaneamente si è assistito anche ad una progressiva finanziarizzazione delle imprese dei più diversi settori. Ben presto lo scopo principale delle aziende è diventato quello di soddisfare le esigenze e aspettative degli azionisti. Il che ha condotto ad una valutazione dei risultati delle aziende in base all’apprezzamento maggiore o minore dei loro titoli finanziari, invece che sulla base dei risultati raggiunti in termini propriamente produttivi e di mercato. D’altro canto la rincorsa alla concentrazione tecnico-produttiva in rapporti di scala sempre più ampi ha ulteriormente rafforzato il ruolo del capitale finanziario in tutti i settori. Su tale fenomeno Gallino insiste molto e con dovizia d’analisi anche in questo libro.

Le tre risposte alla crisi degli anni ’70 – delocalizzazione, automazione e finanziarizzazione – si sono andate ben presto affermando fino a diventare le strategie principali della ristrutturazione capitalista nell’ultimo trentennio.

Esse hanno modificato profondamente il mercato internazionale del lavoro, determinando una forte concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione. Con il risultato di una sua crescente mercificazione e precarietà. Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei rapporti di lavoro nei paesi più sviluppati, ma pesa anche, come un vincolo quasi obbligato, nei paesi oggetto della delocalizzazione, nei quali il supersfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.

Nei paesi di più antico sviluppo la crescente riduzione dei diritti del lavoro ha cancellato decenni di conquiste sindacali e politiche che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità sociale nel suo complesso. Ciò che è venuto meno è la funzione del lavoro nell’organizzazione sociale. La drastica riduzione e tendenziale eliminazione di tale funzione provoca un’instabilità critica del sistema.

Tutto ciò è stato reso non solo possibile, ma apertamente favorito dalle politiche neoliberiste inaugurate nei primi anni ’80 dai governi conservatori della Thatcher e di Reagan. Politiche che hanno trovato sostanziale continuità nell’azione di governo dei vari Blair, Schröder e degli altri becchini della socialdemocrazia europea, in tandem con l’amministrazione Clinton, a partire dalla seconda metà degli anni ’90… fino agli epigoni e alle nanocrazie attuali. Questi ultimi rappresentano il terzo gradino del crescente asservimento della politica agli interessi dei maggiori gruppi economici, sotto il segno dei governi di larghe intese o di falsa alternanza succedutisi in Italia come in altri paesi europei.

Ancora una volta, non si può non concordare pienamente con Gallino quando sottolinea il peso esercitato dalle istituzioni economiche e politiche internazionali: la Commissione europea, la Bce, il Fondo monetario internazionale. E, vorrei aggiungere, senza sottovalutare le connessioni con le strategie della Nato. Organizzazioni le cui attività convergono nel tenere ben saldo il controllo esercitato dal blocco di potere che domina lo scenario internazionale.

Va, inoltre, ricordato che, proprio grazie ai tre assi portanti della ristrutturazione tardocapitalista, i paesi di più antico sviluppo hanno stabilito solide alleanze con i gruppi dominanti tradizionali e i nuovi ceti in ascesa in grandi paesi dell’Asia, Africa e America Latina inducendoli a perseguire modelli di sviluppo e processi di modernizzazione affatto simili. E là dove tali allineamenti hanno incontrato resistenze, si è ricorso ad ogni tipo di pressione, economica, politica e, all’occorrenza, militare.

Il risultato è un sistema di potere economico, finanziario, tecno-militare, politico e mediatico, tanto concentrato, quanto esteso e pervasivo. Esso obbedisce ad una razionalità utilitaria, strumentale e contingente, quella rispondente agli interessi ed alla logica del mercato. Ma tale razionalità è incapace di interpretare i bisogni più autentici e di perseguire fini di utilità generale. E ciò ci fa comprendere come la mega-macchina di questo potere proceda incurante dei diritti fondamentali degli uomini e della salvaguardia degli equilibri naturali.

Disuguaglianza tra gli uomini, saccheggio delle risorse naturali, alterazione del clima sono, per Luciano Gallino, effetti distruttivi che minacciano da presso il nostro futuro.

E’ necessario, dunque, combattere questo potere. La possibilità di farlo e la difficilissima strada da intraprendere a questo scopo sono, appunto, le riflessioni conclusive del libro.

 

Presentazione del libro di Luciano Gallino, Il denaro il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, Torino 2015, Archiginnasio di Bologna, 18 gennaio 2017